Cronaca

Il messaggio del vescovo
Gianotti per la Pasqua

"Celebriamo la pazienza di Cristo"

Carissime sorelle e fratelli della Chiesa di Crema,

alla vigilia della Settimana santa desidero rivolgere a tutte e tutti un saluto e un augurio cordiali e affettuosi. Stiamo per entrare nei giorni più densi e importanti che ogni anno ci è dato di vivere, come discepoli di Gesù Cristo. Come facevano i pellegrini che, a partire dal IV secolo dopo Cristo, si recavano a Gerusalemme, anche noi, grazie ai riti liturgici, seguiamo il Signore nei giorni drammatici e misteriosi che segnano la fine della sua vita terrena e, insieme, il culmine della sua
missione di salvezza.

Il dono che ci fa la liturgia è quello di seguire gli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù non solo come una cronaca giornalistica o un diario di memorie: la fede ci assicura che, mediante i riti, in virtù dello Spirito Santo, noi siamo inseriti in quegli stessi eventi di salvezza. Il passaggio da morte a vita, che il Signore Gesù ha vissuto in quei giorni di duemila anni fa, è possibile anche per noi e, a partire dal nostro Battesimo, continuamente ci rinnova e ci trasforma, perché la novità di Cristo renda anche noi creature nuove. Lasciamoci dunque attirare dai ‘misteri’ (e cioè: gli eventi che ci trasmettono la vita e la salvezza di Dio) della Pasqua, e chiediamo a Dio di viverli meglio che possiamo, con il suo aiuto.

Pasqua nelle chiese e nelle case
Viverli dove? Permettetemi di dire: nel rispetto delle normative per fronteggiare la pandemia (normative alle quali vogliamo continuare a uniformarci scrupolosamente, ben consapevoli che il virus è ancora presente e attivo, e non ammette comportamenti superficiali), cerchiamo anzitutto di partecipare alle celebrazioni che si svolgeranno nelle nostre chiese.
Alla nostra vita di Chiesa, a causa della pandemia, manca dolorosamente, e ormai da molto tempo, quella forte dimensione comunitaria che si attua in modo determinante nella liturgia – ma non solo in essa: e infatti ci mancano altre cose, come il ritrovarci in incontri «in presenza», la convivialità delle nostre feste, la frequentazione in ambienti come gli Oratori, la possibilità per i preti di visitare le famiglie in modo sistematico, com’era tradizione a Pasqua… Ci manca, insomma, il «corpo» della Chiesa nella sua dimensione anche visibile: è un corpo che rischia di assottigliarsi sempre più, di ridursi a un
insieme di contatti «virtuali», che offrono grandi possibilità, ma diventano anche sempre più stancanti. Il corpo della Chiesa nasce proprio dalla Pasqua del Signore. Certo, ciò che lo unisce trapassa tutti i nostri distanziamenti: però questo corpo ha bisogno di radunarsi, di ritrovarsi, di manifestarsi visibilmente: anche questo corpo, altrimenti, si ammala. Per questo, vi invito a fare il possibile – ripeto, nel rispetto delle normative in vigore e, aggiungo, con la massima comprensione per chi si sente intimorito dal perdurare della pandemia e preferisce rimanere isolato – per partecipare di persona e «in presenza» alle celebrazioni pasquali. Ma non dimentichiamo ciò che abbiamo vissuto lo scorso anno, nel pieno
della prima ondata della pandemia. È stato impossibile, ricordate, celebrare i riti della Settimana Santa con la presenza dei fedeli: eppure, non c’è dubbio, anche nel 2020 abbiamo celebrato la Pasqua del Signore. Io stesso, nella lettera che vi avevo scritto col titolo «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua…» (2 apr. 2020), mi ero permesso di dare una serie di suggerimenti e proposte, per favorire la celebrazione della Settimana Santa nelle nostre case, per quanto possibile, e non limitarsi a seguire le celebrazioni trasmesse in televisione o nelle dirette streaming. Celebrare la Pasqua nelle chiese e celebrarla nelle case non sono due alternative incompatibili. Perché non potremmo provare a tenere insieme queste
due possibilità, integrandole l’una con l’altra? Facendo in modo, ad esempio, di prolungare nelle case qualcosa delle celebrazioni fatte in chiesa; oppure anche completandole a vicenda. Un esempio: neppure quest’anno potremo celebrare in chiesa, la sera del Giovedì santo, durante la Messa in cena Domini, la lavanda dei piedi. È un’ottima ragione per ‘ricuperare’ in casa, come avevo proposto anche un anno fa, questo gesto così importante, che il Signore ci ha lasciato.

Pasqua nei cuori, segnati dalla stanchezza
Celebrare la Pasqua nelle chiese, celebrarla nelle case… e poi certo (e anzitutto), celebrarla nei nostri cuori, celebrarla nell’esistenza di uomini e donne che accolgono Gesù Cristo, morto e risorto, al centro della loro vita. Mi chiedo di che cosa hanno bisogno, quest’anno, i nostri cuori, per celebrare nel modo migliore la Pasqua del Signore. Ascoltando la lettura della passione del Signore secondo il vangelo di Marco, sentiremo raccontare la scena drammatica dell’agonia di Gesù nel Getsemani (cf. Mc 14,32-42). Momento drammatico per Gesù, che incomincia a provare «paura e angoscia» e si dice «triste fino alla morte», e si butta a terra, nella sua supplica al Padre (cf. vv. 33-35). Momento nel quale i discepoli – quelli più vicini a Gesù, i discepoli della prima ora – si lasciano vincere dalla stanchezza, da un senso di oppressione che li rende incapaci di ogni sforzo per fare compagnia al Signore e alleviargli un poco la pena di quell’ora così dolorosa. «Dormivano per la tristezza», annota l’evangelista Luca (22,45). Fatte le debite proporzioni, mi sembra che qui sia descritta anche la nostra situazione. Un anno abbondante di crisi dovuta alla pandemia ci ha prostrato, ci ha reso esausti. Molti stanno ancora lottando contro il virus: sia perché ammalati, sia perché dediti alla loro cura. Sappiamo che tanti, tantissimi, non ce l’hanno fatta. Ancora una volta, a loro, e ai loro cari, vanno il nostro pensiero affettuoso e la preghiera che sostiene la speranza cristiana nella vita eterna. Ma anche su chi non è colpito direttamente o indirettamente dalla malattia pesa, mi sembra, questa sensazione: non ne possiamo più, siamo prostrati da tutta questa vicenda lunga, dolorosa; siamo stanchi anche delle troppe informazioni, stanchi di vedere come persino la speranza riposta nel vaccino si è ingarbugliata in ritardi, disorganizzazione, polemiche, incertezze… Siamo stanchi del continuo stop and go riguardo alla scuola, alle attività lavorative e commerciali, a ciò che si può fare o non fare in base al cambiamento dei colori delle regioni… Vorrei essere chiaro: non mi interessa, qui, valutare il fondamento, o la ragionevolezza o necessità delle diverse misure. Cerco solo di capire, se posso, il senso di frustrazione, stanchezza, sfiducia che mi sembra pesare, in questo momento, sulla nostra società; cerco di riconoscere quelle «passioni tristi» che la pandemia fa gravare su di noi; e cerco di chiedermi in che cosa la
celebrazione della Pasqua ci può aiutare, a questo riguardo.

L’amore paziente del Signore
Stiamo per celebrare la passione gloriosa del Signore. Passione gloriosa: che si apre, cioè, allo spazio della gloria di Dio, che non è ricerca del plauso mondano né esaltazione che schiaccia tutto il resto. «Gloria di Dio è l’uomo vivente», secondo la nota parola di sant’Ireneo di Lione (cf. Adv. haer. 4,20,7), e la passione che Gesù affronta è appunto passione per la vita, desiderio ardente di «celebrare la Pasqua» (cf. Lc 22,15), ossia di portare a compimento il passaggio da morte a vita che da sempre sta a cuore a Dio, il Padre, per l’uomo e per il mondo. Passione gloriosa, passione per la vita, passione d’amore, potremmo ben dire, di Gesù, per il Padre e per quelli che il Padre gli ha affidato: ma pur sempre passione, con ciò che di tribolazione e sofferenza porta con sé. Questa parola, passione, attraverso il legame con il verbo patire, rimanda alla pazienza: in un certo senso, la pazienza è sempre la passione, ma messa in atto nel suo risvolto quotidiano, passione declinata nella vita di ogni giorno, e anche nei tempi lunghi del protrarsi di una pandemia come quella che stiamo
vivendo. Forse, in questi tempi, il nostro modo di partecipare alla passione gloriosa del Signore – il nostro modo di partecipare alla sua Pasqua, in definitiva – consiste proprio nell’esercizio della pazienza. A patto, però, di intenderla in
modo giusto. Perché c’è, ad esempio, la pazienza rancorosa, la pazienza che morde il freno, che si pratica in mancanza di meglio, ma in spirito di rivalsa, pazienza vendicativa («Per adesso porto pazienza, ma poi te/ve la farò vedere io…!»); c’è la pazienza che equivale a mera rassegnazione, allo spegnimento progressivo delle energie vitali, a un puro lasciarsi andare, incapace di ogni reazione (è ciò che stiamo vivendo adesso?)… E c’è la pazienza che è sinonimo, semplicemente, di amore: o è, per lo meno, la prima caratteristica dell’amore, secondo la parte centrale dell’inno alla carità che leggiamo nella prima lettera di Paolo ai Corinzi: Caritas patiens est, «L’amore è paziente…»; la prima e anche l’ultima, perché questa parte
dell’inno si conclude con l’espressione: «L’amore… tutto sopporta» – con un verbo greco che spesso viene tradotto proprio con «pazientare» (cf. 1Cor 13,4-7). Viene da dire che tutti e quindici i verbi usati da Paolo in questi versetti, per descrivere che cosa fa l’amore, come agisce (in italiano non si riesce a tradurre sempre con dei verbi i corrispondenti greci: per questo si usano anche aggettivi, come appunto «l’amore è paziente»), potrebbero essere letti come descrizione di un agire «paziente»: tutt’altro che passivo e rassegnato, dunque, e meno che mai rancoroso e vendicativo. Del resto, come si potrebbe caratterizzare la pazienza/passione del Signore, nella sua Pasqua, come spenta rassegnazione, o come premeditazione di vendetta? Parlare della «pazienza di Cristo» (cf. 2Ts 3,5) non significa altro che parlare del suo amore; e parlare della carità, e del suo agire paziente, misericordioso, mite, pacifico, senza orgoglio né ira né malanimo (cf. 1Cor
13,4-7) significa, in definitiva, parlare di Gesù Cristo. Possiamo celebrare la Pasqua che ci sta davanti chiedendo a Dio la grazia di partecipare pienamente della pazienza di Cristo. È una pazienza forte, tenace, creativa. La fede, dice Paolo, può addirittura «spostare le montagne», ma senza questa carità paziente, è nulla! E a nulla serve dare via tutti i propri beni, dare persino il proprio corpo per essere bruciato, se poi manca la pazienza costruttiva, generativa, dell’agape (cf. 1Cor 13,2-3). Del resto, la Pasqua è celebrazione dell’amore magnanimo, paziente e misericordioso di Dio (cf. Es 34,6-7). Chi, più di Lui, può mostrarci la pazienza creatrice e salvifica dell’amore e infonderla nei nostri cuori? Ne abbiamo bisogno, non solo per «portare pazienza» in questo tempo ancora difficile, ma anche, e soprattutto, per portare la forza creatrice della carità dentro la Chiesa e la società, che la pandemia ci sfida a rinnovare radicalmente: ben sapendo che chi fa nuove tutte le cose è, nello Spirito Santo, il Signore Gesù, morto e risorto. A lui, che ha voluto condividerle, affidiamo le nostre stanchezze e la tristezza che ci opprime: da lui, dalla sua passione d’amore, riceviamo il dono di una pazienza a tutta prova e la promessa di una gioia che nessuno ci potrà togliere (cf. Gv 16,22).

Buona Pasqua

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