Voci e ricordi di Piazza Fontana:
intervista a Paolo e Matteo Dendena
Memoria: abbracciare quanto è accaduto nel passato perché ciò possa plasmare noi stessi, il nostro presente, le nostre vite. Conoscere la storia significa essere consapevoli che ciò che è accaduto può ancora essere. Non ricordare equivale a pregiudicare, tristemente, il nostro futuro.
Questo è ciò che abbiamo tentato di fare noi, Alice Boccú e Samuele Marchetti, due alunni di 5B Liceo Classico dell’IIS Racchetti – da Vinci di Crema, in merito ad un progetto di classe relativo agli “anni di piombo” del nostro Paese, e più nello specifico, alla strage di Piazza Fontana a Milano, del 12 dicembre 1969.
Dopo aver ascoltato le testimonianze di Paolo e Matteo Dendena, rispettivamente figlio e nipote di Pietro Dendena, una delle diciassette vittime dell’attentato terroristico alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, durante un incontro tenutosi presso il nostro Istituto, e dopo aver preso visione del docufilm prodotto dalla Rai “Io Ricordo: Piazza Fontana”, abbiamo scelto di addentrarci ancor di più nel tema, fino ad arrivare alle voci dei suoi testimoni, per chiarire i dubbi che ci sono inevitabilmente sorti di fronte alle ingiustizie ed incongruenze del passato.
Prima, però, di raccontare che cosa sia emerso da questo momento, è bene fare un passo all’indietro e capire fin da subito la storia che ci ha portato ad ascoltare e incontrare queste due voci. La storia di Piazza Fontana inizia il 12 dicembre del 1969, quando nel pomeriggio del giorno di Santa Lucia un ordigno esplosivo scoppiò nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, collocata nell’omonima piazza, dove coltivatori e imprenditori del settore si ritrovavano settimanalmente dalla provincia, per la gestione del mercato agricolo.
Le conseguenze della strage furono devastanti: la bomba strappò alla vita diciassette persone e novanta vennero ferite. Lo stesso giorno anche a Roma si verificarono altre tre esplosioni e, in generale, gli attentati del 12 dicembre segnarono l’inizio degli “anni di piombo”. La strage di Piazza Fontana divenne il momento più alto di un progetto eversivo organizzato anche grazie agli altri attentati di quello stesso anno e volto a sfruttare il disordine e la paura del popolo per finalità politiche di tipo autoritario. A livello giudiziario, con l’abbandono della pista anarchica, che era stata inizialmente intrapresa, le indagini si concentrarono su alcuni esponenti del gruppo terrorista di estrema destra Ordine Nuovo, e coinvolsero persino esponenti di spicco dei servizi segreti nazionali.
Il lungo e tormentato iter processuale è terminato nel 2005 con una complessiva sentenza tombale, che dimostrò, storicamente, il coinvolgimento nella strage dei terroristi neri Freda e Ventura, che però vennero definiti non più processabili, poiché già assolti in via definitiva nel primo processo.
Il 5 aprile di quest’anno abbiamo intervistato Paolo e Matteo riuscendo a cogliere le sensazioni e i sentimenti più profondi che si possano provare di fronte ad una tragedia simile, attraverso le parole di un padre e un figlio che convivono da tempo con una storia da raccontare e far ricordare.
In che cosa consiste concretamente, oggi, l’impegno civile, morale e sociale dell’Associazione Vittime di Piazza Fontana, di cui fate parte?
Matteo: “I familiari di coloro che sono stati uccisi nell’attentato hanno svolto una funzione fondamentale in quanto si sono spogliati della veste di vittime per diventare dei testimoni, trasformando la tragicità dell’accaduto in una possibilità di rinascita collettiva. L’obiettivo principale dell’associazione, oggi, è quello di parlare alle generazioni future mostrando i punti di vista delle famiglie delle vittime coinvolte, in modo che siano in grado di orientarsi, avvicinarsi emotivamente identificandosi nelle persone colpite e magari riconoscendosi nel percorso che hanno dovuto affrontare. L’associazione che era originariamente di natura privata diventa ora una storia di comunità nazionale anche grazie all’aiuto fornito dalle istituzioni. L’associazione si prefigge il compito di fare attività come ad esempio progetti di memoria musicale, visiva, artistica, cinematografica, rivolgendosi a persone a vario titolo coinvolte nella vicenda. L’associazione svolge un impegno internazionale nel ricordare e nel commemorare la giornata della memoria internazionale, rimembrando le stragi terroristiche del passato: basti pensare alle strage dei treni di Madrid del 2004.”
Paolo: “Non facciamo parte politica, la nostra è un’attività che si prefigge di raccontare la storia per come è successa nel periodo stagista, dal 1969 al 1980, dal punto di vista delle famiglie coinvolte, delle donne e degli uomini, dei bambini rimasti feriti da questa tragedia.”
C’è qualcosa di concreto che vi spinge ad impegnarvi così strenuamente nel garantire prima di tutto le informazioni necessarie ai giovani di oggi sul tema degli “anni di piombo”?
Matteo: “Per comprendere quanto sia doveroso fare informazione sul tema vi faccio un esempio: è interessante un’indagine che è stata realizzata recentemente in un’università italiana, in cui sono stati intervistati cinque studenti chiedendo chi di loro conoscesse la verità sui mandanti della strage di Piazza Fontana e tutti gli intervistati hanno dato la risposta errata dicendo che i responsabili erano gli esponenti delle Brigate Rosse. In realtà i colpevoli furono gli ordinovisti di destra. Vi faccio questo esempio in quanto testimonia quanto sia importante lavorare con le istituzioni, non per decidere se studiare questo periodo storico o meno, ma per diffondere conoscenza, che, a dire il vero, all’interno di una democrazia si dovrebbe dare per scontata.”
A Catanzaro nel 1979, a quasi dieci anni dalla strage, arrivò finalmente la sentenza che condannò all’ergastolo, tra gli altri, Freda e Ventura come colpevoli del delitto di strage continuata presso Piazza Fontana. Ma gli attentati non finirono: ci fu un’esplosione a Bologna il 2 agosto 1980 e la strage del Rapido 904 il 23 dicembre 1984. Come avete reagito di fronte a queste notizie, proprio nel momento in cui giustizia sembrava fosse stata fatta?
Paolo: “Dopo le ulteriori stragi, mia sorella Francesca disse ‘temetti che a quel punto lo stato d’emergenza avrebbe potuto non reggere’: una verità su Piazza Fontana, ossia la prima strage terroristica a fare delle vittime, avrebbe scongiurato altri attentati, ma c’è stata una distanza di qualche mese tra la sentenza di primo grado e l’attentato di Bologna. Alla sentenza, tra l’altro, si arrivò dopo una serie di processi avviati e poi interrotti, sempre con l’obiettivo di nascondere la verità. Forse il tempistico raggiungimento di una verità sulla strage, con condanne e assoluzioni annesse, avrebbe fatto sì che non ne accadessero le altre, ma d’altra parte il clima incandescente di quegli anni non avrebbe completamente esaurito la sua forza anche se fosse stata trovata la verità.”
‘Tutto quello che abbiamo fatto non è servito a niente’: questa è una frase che Paolo pronuncia nel docufilm, come reazione alla assurda e anti-democratica assoluzione per la strage di Piazza Fontana di Freda, Ventura e gli altri accusati, e che esprime un sentimento che torna anche nel 2005, dopo la sentenza tombale.
‘Giustizia e verità’, era invece il motto di Francesca Dendena, sorella di Paolo e una delle fondatrici dell’Associazione, che perpetuò la sua opera democratica in nome dell’onestà anche dopo la chiusura dei processi.
Quale dei due sentimenti è prevalso in voi al tempo? La delusione di fronte alla gestione dei processi da parte dello Stato Italiano, che, con il suo comportamento complice ed omertoso, ha ostacolato e continuato ad impedire l’accertamento della verità giudiziaria? Oppure, la sete e il desiderio di verità tanto ricercati da Francesca?
Paolo: “Nel 1977 avevo diciassette anni, accompagnavo mia sorella a Catanzaro affrontando un viaggio interminabile di circa 1250 km, che durava ventidue ore di treno. Nostra madre ci diceva sempre che io e Francesca dovevamo andare per farci dire chi avesse ucciso nostro padre. Il giudice durante un processo domandò a noi fratelli il motivo della nostra presenza. Io risposi ‘perché crediamo nella giustizia e speriamo che giustizia venga fatta’; la sua risposta fu ‘faremo del nostro meglio’. Mia sorella Francesca aggiunse che un giorno avrebbe
voluto ‘avere qualcuno da perdonare’. Abbiamo sempre avuto una salda fiducia nelle istituzioni, e soprattutto vogliamo trasferire questo sentimento verso le nuove generazioni.
Ovviamente però c’è una sostanziale differenza tra il pretendere giustizia e vedere che questa stessa venga fatta: noi abbiamo aspettato a lungo perché accadesse, fidandoci ciecamente delle istituzioni. Per un po’ di tempo io e Francesca, mia sorella, abbiamo pensato di avere sprecato molti anni perché i tempi delle sentenze si allungavano sempre di più e io, personalmente, nutrivo forti dubbi verso la giustizia. Tuttavia, la volontà di portare in piazza il nostro dolore e di fare memoria era troppo forte per lasciare spazio alla rabbia e all’indignazione del momento. L’orgoglio e il sollievo di ciò che si porta avanti hanno prevalso e dunque gli anni spesi in questo impegno non sono stati vanificati.”
Il 15 dicembre 1969 si è tenuto il funerale di Stato per le vittime dell’attentato. ‘C’era tutta Milano’: Paolo, nel docufilm, ricorda una folla immensa e un silenzio ‘assordante’. Da bambino qual era, quello del funerale è stato il momento in cui ha forse capito la portata dell’evento che era accaduto pochi giorni prima? O, se non fosse stato così, quando e come ha capito che si trattava di un attentato terroristico vero e proprio, di una strage rivolta ad una cittadinanza intera? Cos’ha visto, lei, con gli occhi innocenti di un bambino?
Paolo: “Da bambino di 10 anni quale ero non mi sono reso conto subito di cosa fosse effettivamente successo, anche se la mia prima sensazione, essendo quello dell’attentato il giorno di Santa Lucia, era quella di essere rimasti orfani in un giorno così speciale nel nome di un’assurda ideologia. Ricordo bene però la sensazione che provai al funerale: trecentomila persone, dalla massaia all’imprenditore, senza bandiere politiche alcune, che si chiedevano solo il perché di tutto questo sangue. Mi ricordo che giravo attonito attorno alla bara di mio padre, Pietro, senza capire niente. È solo con il passare degli anni che arrivi a renderti conto della portata di certi eventi. Quando sono arrivate le maestranze dell’allora Presidente della Repubblica per le previste procedure di protocollo, mia mamma e mia sorella hanno rifiutato la loro stretta di mano, mentre a me fu fatta una carezza sulla testa. Quella mano avrebbe dovuto proteggermi, proteggerci, proteggere mio padre e gli altri lavoratori morti come lui, ma non è riuscita a farlo. Ecco perché ancora oggi continuo a ripetere che le istituzioni devono salvare i cittadini, e non portare loro violenza. Sicuramente oggi raccontare vuol dire rivivere, ripercorrere la vicenda, e non è facile, ma per fortuna oggi sono state istituite le giornate della memoria o del ricordo, che rendono giustizia, cosa dovuta in democrazia, anche se un tempo non era così”.
Nel momento in cui avete dovuto affrontare la realtà e vi siete ritrovati senza una figura centrale nelle vostre vite, qual è stato il ruolo che vostra madre, rimasta vedova, ha svolto per la formazione di voi ragazzi e quale il ruolo di Francesca, in quanto figura di riferimento sia a livello familiare che sociale e civile?
Paolo: “Fortunatamente mia madre è sempre stata bravissima con noi ragazzi e mia sorella ha preso velocemente consapevolezza di ciò che era successo, e insieme provavano a non farmi sentire la mancanza del padre, anche se, non vi nascondo che tutte le sere, guardando la televisione e sentendo i servizi sulla strage, io soffrivo, e soffro tuttora, anche se riconosco l’importanza del parlare alle nuove generazioni infondendo coraggio e fiducia in loro.”
Dal momento che Paolo ha perso una figura come il padre a soli 10 anni in un attentato, che parole si sente di rivolgere a tutti quei ragazzi e ragazze che, ancora oggi, a causa dei conflitti e delle guerre internazionali si ritrovano ad essere soli senza ragione alcuna?
Paolo: “Mio padre è sempre stato un uomo buono, e so cosa significa perdere una figura del genere. Vi faccio un esempio, quando andavo con lui in campagna e vedevamo le mucche che venivano portate al macello, spesso alcune di queste venivano prese brutalmente a bastonate, ma mio padre, di fronte a tanta cattiveria, si opponeva sempre e fermava chi faceva loro del male, conscio del triste destino a cui stavano andando incontro. Era un uomo giusto, molto responsabile, un grande lavoratore. Io e mia sorella abbiamo sempre avuto una grande consapevolezza di chi avevamo perso. Di fronte ad una mancanza simile, mi sento di dire a chi anche oggi perde i propri genitori in guerra o per gli attentati terroristici, che bisogna farsi forza e comprendere il potere del ricordo, perché nessuno vuole che tragedie del genere debbano ancora da accadere.”
Con queste parole si è conclusa la nostra intervista a Paolo e Matteo Dendena, che sono riusciti a spiegarci e raccontarci, non solo in che cosa consista oggi l’essere figlio, o nipote, di una vittima di terrorismo, ma anche come noi dobbiamo essere testimoni del valore di questa memoria, nel nome di un presente e futuro migliore.
Ricordo è la parola chiave, non solo all’interno del titolo del docufilm, ma anche all’interno dell’intervento di Francesca Dendena presso il Quirinale, il 9 maggio 2009, all’interno del quale propone il ‘percorso fondamentale da mantenere se vogliamo che la memoria di quegli avvenimenti diventi coscienza civile di un popolo’, cosicché il ricordo stesso delle vittime, di quelle persone innocenti, si trasformi in una ‘nuova resistenza, difendendo tenacemente le istituzioni democratiche’.
Oggi, è compito dei vivi fare ed avere memoria del passato, ascoltare le voci che ci raccontano quanto accaduto, di chi non c’è più, di chi memoria non ha, affinché nasca una cosciente resistenza civile, in grado di ricordarci che ciò che è accaduto può ancora essere, e soprattutto, che la storia siamo noi. Avere paura di ricordare il nostro passato significa avere paura di noi stessi, della nostra storia. Un limite che non dobbiamo permetterci, se vogliamo guardare al futuro.
Alice Boccù e Samuele Marchetti, 5B liceo classico