Cronaca

Delitto di Morena, il marito: "L'ho
colpita, ma non volevo ucciderla"

“Quella sera eravamo seduti sul divano quando è nata una delle tante discussioni sul fatto che lei non si voleva far aiutare, poi non so cosa mi sia accaduto. Le ho tirato due schiaffoni, è andata a sbattere contro il bracciolo del divano, è caduta per terra con la faccia rivolta contro il pavimento, l’ho raddrizzata e ho visto che le mancava l’ossigeno. Poi ha ansimato. Le ho sentito il cuore, il polso, nessun cenno. Le ho praticato il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, ho provato a rianimarla, ma niente, era morta. Non ho chiamato i soccorsi perchè sono entrato in panico, non capivo più nulla. L’ho coperta, ho fatto una doccia veloce e ho portato nostro figlio a mio fratello. Me ne sono andato in macchina, ma la mia non è stata una fuga. Volevo farla finita. Poi ho realizzato che mio figlio sarebbe rimasto solo e a quel punto ho raggiunto la caserma dei carabinieri di Rivolta d’Adda. Ho suonato, ma non mi hanno risposto. Allora mi sono diretto verso Pandino e lì mi ha fermato la pattuglia”. 

Ha pianto più volte, oggi, davanti ai giudici della Corte d’Assise, Eugenio Zanoncelli, 56 anni, dal 2003 operaio alla Bosch di Offanengo, a processo per aver ucciso la moglie Morena Designati, 49 anni, la sera del 24 giugno 2020 nella loro villetta in via De Nicola a Palazzo Pignano. Fino ad oggi l’imputato non aveva mai fornito la sua versione di quanto accaduto, trincerandosi nel silenzio. Dopo l’arresto, aveva parlato con il pm Milda Milli, ma senza entrare nel merito dei fatti, sostenendo di essere ancora agitato, mentre con il gip si era avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo esame di oggi è stato chiesto sia dal pm che dall’avvocato difensore Maria Laura Quaini.

I carabinieri li aveva chiamati poco dopo le 22 di quella stessa sera Roberto Zanoncelli dopo che il fratello Eugenio si era presentato nella sua abitazione di Rivolta d’Adda per consegnargli il nipote di 13 anni. “Ho fatto una cazzata”, gli aveva detto poco prima al telefono, “ho ucciso Morena”. Poche ore dopo, davanti al pm, dirà: “Volevo ucciderla, come minimo prendo 20 anni”. Frase, questa, verbalizzata dal pm ma oggi contestata dall’imputato. “Non l’ho mai detta, non ho mai voluto uccidere mia moglie. Mi sentivo in colpa, ma non ho mai pensato di togliere la vita a Morena”.

In aula, Eugenio Zanoncelli, sposato con la vittima dal 1994, ha negato di aver colpito la moglie, affetta dal 2015 da sclerosi multipla, con una delle sue stampelle, entrambe trovate in garage su indicazione dello stesso imputato. Su una era stato trovato sangue nella parte inferiore e materiale biologico sull’impugnatura, mentre sull’altra sangue vicino al manico e sullo snodo. “Compatibile con un utilizzo al fine di colpire”, secondo il maresciallo maggiore Massimiliano Stabile, del Ris di Parma. “Non l’ho colpita con la stampella”, ha invece sostenuto l’imputato, che ha giustificato la presenza del sangue dicendo che 15 giorni prima Morena era caduta sbattendo il mento”.

Il decesso di Morena Designati, come accertato dal medico legale Margherita Fornaciari, è avvenuto per insufficienza cardio circolatoria. I colpi sferrati dal marito, un pugno in volto e un colpo di stampella, secondo l’accusa, non sarebbero stati idonei, da soli, a causarne il decesso, ma hanno aggravato la condizione cardio circolatoria della donna. Quei colpi, quindi, sarebbero stati fatali alla vittima, già magrissima, malnutrita e debilitata dalla malattia. “Mia moglie è sempre stata ben nutrita”, ha detto Roberto Zanoncelli, “ma continuava a dimagrire. Era da qualche giorno che non mangiava, continuavo a dirle che dovevamo fare qualcosa, ma lei non voleva chiamare il 118, non voleva chiamare il medico, non voleva andare in ospedale. Dammi tempo, dammi tempo, mi diceva. Non voleva farsi curare, non voleva aiuto, e per questo tra di noi c’erano sempre dei contrasti, delle liti”. 

Liti che a detta di Zanoncelli scoppiavano anche per via della pulizia della casa. “Ero io a fare la spesa, e lei, viste le sue condizioni, non era in grado di fare i mestieri. Mia moglie voleva che fosse nostro figlio a pulire, mentre io non ero d’accordo. Non si poteva chiedere una cosa del genere ad un ragazzino di quell’età”. “Il nostro rapporto si stava deteriorando”, ha ammesso l’imputato, “io mi facevo in quatto, ma mi sentivo solo”. Zanoncelli ha anche respinto l’accusa di aver relegato la moglie in una situazione di isolamento forzato, così come emerso soprattutto dalle testimonianze dei familiari della vittima. La sorella Giacomina, per esempio, aveva riferito di aver visto Morena per l’ultima volta nel gennaio del 2020. “Anche se era malata, il marito le faceva fare i mestieri e doveva fare da mangiare. Io andavo a trovarla quando era da sola perchè lei mi aveva fatto capire che suo marito non voleva. Non riuscivo tanto a parlare con mia sorella perchè lei non si confidava”.

“Io non ho mai negato a nessuno di entrare in casa”, ha detto invece l’imputato. “Non sono mai stato in buoni rapporti con la famiglia di mia moglie, ma Morena era comunque libera di fare quello che voleva”. E poi i lividi sul corpo della vittima:  segni che erano stati notati sia dalla sorella che dalle ex colleghe di lavoro della vittima, che prima di ammalarsi aveva lavorato in un’azienda di cosmetici. Per il medico legale, “traumi reiterati nel tempo avvenuti probabilmente per aggressione”, mentre per Zanoncelli, “ematomi causati da un susseguirsi di scivolate e cadute in casa”. 

“Si è reso conto dell’estrema fragilità di sua moglie?”, gli ha domandato infine il presidente della Corte Anna di Martino, “che alzare le mani su una persona così fragile…”. “Non so cosa mi sia successo”, ha ripetuto Zanoncelli, “vedevo che lei peggiorava, avrei dovuto agire diversamente”.

Con l’esame dell’imputato e sentiti tutti i testimoni, il processo è concluso. Per il 15 novembre è stata fissata la requisitoria del pm e le conclusioni delle parti civili e della difesa, mentre il 22 novembre la Corte si ritirerà in camera di consiglio per la sentenza.

Sara Pizzorni

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