Cronaca

Rifugio San Martino a Crema: racconto di vite fatte di strada, solitudine e dipendenze

La porta del rifugio San Martino si apre nel modo più ovvio del mondo: suonando un campanello. Due corte rampe di scale portano alla struttura al primo piano. Entrando si sente odore di vita. No, non quella vita percepita nei reparti di maternità, quella della strada. Quel misto di sudore e cibo consumato con le mani, di spezie che arrivano da lontano. Qualcuno ha cenato (o forse pranzato) con un kebab.

Entro e mi accoglie Filippo Mariani, uno degli operatori del rifugio. Mi spiega come funziona il centro, le poche e semplici regole che gli ospiti devono rispettare – per rispettarsi -:

  • la cucina chiude alle 22 e riapre alle 7 per la colazione
  • la doccia si fa la sera, mentre la mattina si usa il bagno velocemente
  • si effettua la raccolta differenziata
  • si rispetta chi dorme

L’ultima regola mi colpisce, sembra banale, ma poi capisco che davvero gli uomini che ci sono qui hanno due sole cose: freddo e sonno.

Mi guardano quasi tutti sorridendo. Tutti salutano, chi con un “buonasera”, chi solo con lo sguardo, intimorito dal disturbare chissà quali conversazioni importanti, mentre io sto solo apprendendo dal responsabile dove siano gli asciugamani. Loro sanno già come muoversi, a chi chiedere, dove andare. L’ospite, stasera, sono io.

18 posti letto che, quest’anno, non sono tutti occupati: “L’anno scorso a gennaio eravamo pieni – spiega Filippo – Mettiamo a disposizione tutto il necessario, dagli spazzolini da denti al sapone fino a caffè e tè caldi”. Nella cucina spartana c’e un ragazzo che prega verso la Mecca, un altro si prepara una tazza di latte, entrambi in assoluto silenzio.

Sono quasi le 22 e la porta del rifugio, a breve, si chiuderà. Decido allora di seguire due ospiti che stanno scendendo in cortile a fumare una sigaretta (nelle stanze è vietato).

Dopo un imbarazzo iniziale, G., senza che gli abbia chiesto nulla, inizia a raccontare. Faceva il muratore, “il lavoro più umile”, dice lui. “Quello più utile”, rispondo io. “Puoi mettere tanti tipi di intonaco, puoi colorarlo come vuoi il muro, ma lì sotto ci sono i mattoni”. Mi spiega che non trova lavoro, che non ha una casa, lui che le case le costruiva. Dopo avermi ricordato che sono stati gli antichi romani che hanno capito che i soldi sono vicini ai mattoni, torna di sopra: “Qui fa freddo”.

Resto a finire la sigaretta con M., 38enne marocchino che vive a Crema dal 2004. In Africa ha una moglie e due bambini di 6 e 4 anni. E mentre fuma mi parla del lavoro che comincerà lunedì a Treviglio. Quando gli chiedo se possa portare i suoi figli in Italia la voce si rompe un po’, ma forse è solo l’umidità pungente di gennaio.

Poi c’è O. che ha alle spalle una vita di povertà. Gli è stato tolto il reddito di inclusione perché maltrattava la moglie. Ha cinque figli che raramente vede e ogni mattina, con la sua bicicletta, lascia il rifugio e va a Cremona, “perché lì ho i miei giri, i miei contatti”.

A. è indiano, in Italia da tanti anni. Qui gli sono nati due figli quando ancora lavorava come mungitore. Poi ha perso il lavoro e la sua famiglia è tornata in India, mentre lui è rimasto invischiato nella dipendenza da alcol. Ormai fa vita da strada, dorme dove capita quando il rifugio è chiuso durante la primavera.

“La strada è ciò che accomuna tutte le persone che ci sono qui – prosegue Filippo – C’è chi c’è finito per l’alcol, qualcuno per la droga. Nessuno ha alle spalle una rete famigliare”. Ma al rifugio nessuno chiede nulla, si accoglie e basta, anche chi non è in regola (le forze dell’ordine ne sono informate, ndr), perché la fame e gennaio non ti chiedono i documenti. Qui basta dare il proprio nome e il badge della Caritas.

Al San Martino si incrociano vite dal destino incerto. Quasi nessuno parla e alle 23 si sente solo un gran russare. La stanchezza della giornata in strada scende presto mentre chi sogna forse immagina l’indomani come oggi. Ancora con quel bicchiere di vino per dimenticare l’eternità delle ore, a ricordare la fortuna fuggita o le scelte sbagliate, gli “eccessi eccessivi”.

M. mi ha chiesto se sia venuta per scrivere di loro. “Per raccontare”. È diverso. Questo voleva essere, più che un articolo, un breve racconto delle vite degli altri. Vite che transitano senza fermarsi, salvo poi ritornare, ogni sera, per fuggire al freddo, alla solitudine.

Il rifugio apre alle 20 e chiude alle 22. Chiunque voglia fare una doccia, bere qualcosa di caldo, trovare una coperta e un letto pulitissimo, basta che suoni il campanello in via Civerchi, 7.

A chi, invece, a fine giornata torna a casa propria, consiglio di lasciarla anche per una sera e andare ad ascoltare queste storie. Sono tante, troppe. Ma servono per non dimenticarsi degli altri.

Ambra Bellandi

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