Amadou, Banta e Abdel: storie senegalesi di ordinaria speranza
Un proverbio senegalese dice: “Coloro che salgono su una stessa piroga, hanno le stesse aspirazioni”.
Ma quelle che hanno portato Amadou, Banta e Abdel in Italia non erano piroghe. E la loro non era aspirazione, ma speranza. La speranza di chi si vede sbattuto a forza su un barcone, mandato a morire di sete, travolto in un nubifragio o calpestato da altri esseri umani disperati.
Le storie di Amadou, Banta e Abdel iniziano tutte in Senegal, passano per la Libia e arrivano in Italia. Sono storie di dolore e paura, solitudine e morte, carcere e torture. Storie ordinarie in un continente martoriato da tempo immemore. Vite che non hanno più nulla a cui aggrapparsi, se non alla speranza.
Amadou Balde, 20 anni
“Sono nato in Senegal, da mamma cristiana e padre musulmano. Mia mamma è morta quando avevo cinque anni e sono cresciuto con mio papà fino ai dieci, poi anche lui ha lasciato questo mondo”. Così inizia la vita di Amadou, malvisto dalla famiglia paterna perché voleva essere cristiano come la mamma, incolpato dai fratellastri per la morte del papà. Rifiutato da tutti, a 13 anni, dopo la terza media, Amadou è rimasto solo. “Un’amica mi ha accolto e tempo dopo mi ha mandato in Libia, da alcuni suoi parenti, per lavorare. Mi sono dato da fare per un anno, ma non partecipavo alla vita religiosa. Non volevo dire le preghiere musulmane. Dentro di me ho sempre saputo di essere cristiano”.
Ma in certi posti del mondo la scelta della religione può fare la differenza tra la libertà e la morte: “I trafficanti di uomini mi hanno preso. Mi hanno incarcerato per otto mesi, senza quasi darmi da mangiare, volevano farmi morire. Una notte sono venuti a prendermi, mi hanno ammanettato mani e piedi e senza dire niente, mi hanno portato al mare. Non vedevo nulla, ma ho capito che mi stessero mettendo su una barca”.
Amadou resta in mare per giorni e giorni: “Non ho idea di quanti fossimo su quel barcone, non so cosa sia successo. Ricordo solo gli uomini della croce rossa italiana. Ero quasi morto, avevo sete. Era il 12 luglio 2015 ed ero a Catania”.
Amadou, come molti altri, viene spostato al nord, prima a Milano, poi a Brescia e Cremona e arriva infine a Crema, accolto dalla cooperativa sociale “Tecnoproject”. “Qui sto bene, sono sereno. Alla cooperativa mi seguono, mi mandano a scuola e sto imparando la lingua. Frate Giuseppe Fornoni è un grande supporto”.
“Vorrei restare – continua Amadou – Qui posso essere cristiano. Voglio imparare bene questa religione, la sento dentro. E poi spero di diventare calciatore, magari della Juventus”.
Ma non c’è solo Amadou che ha voglia di raccontare il passato, di farsi conoscere per quel che è davvero: un ragazzo che ha visto la morte e che è grato ogni giorno per la vita che può vivere. Come lui ce ne sono altri, come lui c’è Banta.
Banta Sakhone, 26 anni
“Sono arrivato in Italia il 29 ottobre 2014. Sono scappato dal Senegal perché mi sono difeso dopo aver preso un pugno. Ho dovuto spostarmi per lavorare, per scampare a chi voleva farmi del male. Per molto tempo ho sperato di tornare in Senegal, poi, su quella barca, ho capito che non avrei più visto il mio Paese”.
Banta ha ancora nostalgia del Senegal, lo si capisce da come gesticola mentre racconta la propria storia: “Dopo quella rissa durante una partita di calcio, la mia vita è cambiata. Ho risposto al colpo di un altro ragazzo, ma le sue conoscenze, la sua famiglia, erano molto potenti nel territorio del mio villaggio. Sono venuti a casa mia e volevano prendermi, così sono scappato”. Banta passa dal Mali al Burkina Faso, dalla Nigeria fino ad arrivare in Libia, lavorando, cercando di guadagnare il necessario per vivere.
“A Tripoli gestivo la merceria di un uomo conosciuto in Nigeria ed ero ospite della sua famiglia. Ho lavorato lì per un anno, poi alcuni banditi sono venuti per chiedermi dei soldi. Io non glieli ho voluti dare, perché quel denaro non era mio. Così quegli uomini hanno derubato il negozio, in quattro mi hanno legato e sbattuto nel bagagliaio di un auto”. Banta viene portato in prigione e i suoi carcerieri lo tengono rinchiuso per sei mesi. “Mi ha fatto scarcerare proprio il proprietario della merceria, ma quando ho cercato di spiegargli cosa fosse successo lui ha pensato che fossi d’accordo con i banditi per portagli via i soldi”. Banta viene picchiato, prega di tornare in Senegal e invece quell’uomo lo conduce al mare.
“Mi ha detto ‘Sali o muori’. E sono salito, con altri 150 esseri umani, per un viaggio senza ritorno. Ho visto la morte – racconta Banta – Ho visto la morte tante volte. Siamo stati una settimana senza bere né mangiare. Poi ricordo le barche italiane. Siamo arrivati a Lampedusa e ci hanno curati”.
E’ il 1 novembre 2014 quando Banta arriva a Crema: “Ho conosciuto tanta gente, i cremaschi sono buoni. Li ringrazio di cuore tutti quanti. Mio nonno diceva sempre che se ricevi del bene sei felice e allora devi fare felice qualcun’altro”. Per questo Banta sogna di aiutare gli anziani e i disabili: “Vorrei restare qui perché mi sento a casa, sono felice”.
E se non è la religione o l’etnia a costringere i ragazzi a scappare, è il denaro. Ed è proprio per questo che anche Abdel è arrivato in Italia, vivo per miracolo.
Abdel Kader Diallo, 22 anni
“Mio padre coltivava il riso. E’ morto quando avevo otto anni. Io non ero mai andato a scuola e lavoravo con lui, ma ero troppo piccolo e i soldi erano pochi”. Abdel è solo un bambino quando si ritrova a mani vuote. La madre è vittima delle continue percosse del cognato e per Abdel questa situazione non può continuare.
“I miei parenti mi avevano prestato 15 milioni per investire in campi e riso, ma l’acqua per irrigare non c’era e il mio raccolto è andato in fumo. Ero un ragazzino quando le botte che mio zio dava a mia mamma erano così frequenti e forti da non farmi dormire di notte. Così l’ho picchiato anche io, e poi sono scappato”.
Abdel va verso il Mali, dove trova lavoro come cameriere in un hotel. Poi arriva in Burkina Faso e in Niger. “Mi hanno preso i tuareg, senza motivo. Eravamo in tanti, uomini, donne, vecchi e bambini. Ci hanno lasciato nel deserto per sei mesi”. Abdel riesce a scappare in Libia, ma le cose non si mettono meglio.
Viene preso dai trafficanti di uomini e incarcerato per sei mesi, poi riesce a fuggire a Tripoli: “Ho vissuto come un senzatetto per due mesi, poi ho iniziato a lavorare come muratore insieme ad altri ragazzi”. Abdel chiede il pagamento del proprio lavoro, ma per tutta risposta viene portato su un barcone.
“Chi provava a fuggire veniva colpito senza pietà. Gli scafisti mi hanno detto ‘Sali e vai a morire’. Siamo stati per tre giorni in balìa del mare, senza cibo e acqua”.
Abdel arriva a Catania il 12 luglio, poi viene trasferito a Milano e Brescia e, infine, giunge a Crema: “Sto tanto bene qui – ammette con la voce un po’ roca e un italiano ancora titubante – studio per imparare la lingua, frate Giuseppe ci aiuta a stare con la gente. Vorrei fare il cuoco, sono bravo a preparare da mangiare. Ora sono vivo, credevo di morire. Voglio fare tante cose”.
Amadou, Banta e Abdel. Tre storie che dal Senegal arrivano a Crema. Tre ragazzi che hanno visto la morte in faccia, l’hanno guardata e, quasi per sfida, si sono aggrappati alla vita.
Ambra Bellandi