Cronaca

Ricordo del maggiore
Calzi: tenne testa
ai tedeschi a Corfù

Il maggiore Stefano Calzi di Agnadello fu uno degli eroi della Divisione Acqui che tennero testa alle preponderanti forze tedesche nell’isola di Corfù.

Quando si parla della Acqui, si pensa generalmente all’isola di Cefalonia. L’unità militare italiana era dislocata anche in altre isole Jonie e principalmente a Zàkinthos (la Zacinto del Foscolo), Lefkàda (Leucade, chiamata Santa Maura dagli italiani) e Corfù (Kèrkira per i greci). Anche in quest’ultima isola si compirono le gesta eroiche della Divisione comandata dal colonnello Luigi Lusignani.

La storia del maggiore Calzi, gentilmente segnalatami dal signor Luciano Ricci di Crema, merita di essere ricordata.

Stefano Calzi era nato ad Agnadello il 26 dicembre 1896. Persona umile, buona e retta nel ricordo di chi lo conobbe, era in possesso del diploma di geometra.

Il maggiore Stefano Calzi

Richiamato alle armi il 7 febbraio 1941 partì per l’Albania. Passò quindi a Corfù con il 18° Reggimento Fanteria Acqui. Qui, per le sue riconosciute capacità tattiche ed organizzative, ebbe il comando della piazzaforte del capoluogo, Corfù.

Nei fatti che seguirono l’ 8 settembre 1943 sostenne l’idea della resistenza ai tedeschi stimolando e infondendo coraggio nei militari a lui sottoposti. Quello era il suo dovere di soldato che aveva giurato fedeltà alla patria nella quale riponeva fiducia convinto che non avrebbe abbandonato i suoi figli.

Le campane che con l’8 settembre avevano suonato a festa all’annuncio dell’armistizio erano, per lui e per il Comando italiano dell’isola, il segnale che i tedeschi erano diventati nemici. Il Calzi, dall’alto del suo grado, capì subito la drammaticità della situazione sottolineata ancor più dalla partenza da Corfù, per l’Italia, delle unità navali “non necessarie” alla difesa secondo l’ordine ricevuto dallo Stato Maggiore della Marina. I tedeschi avevano subito provveduto ad interrompere le comunicazioni telefoniche a filo con l’Italia tranne che per il tratto con Igoumenìtsa, città posta nel nord della Grecia.

Il 9 settembre, un marconigramma,  inviato dal Comando dell’11^ Armata stanziato nel territorio ellenico, aveva ordinato di consegnare ai tedeschi le postazioni fisse antinavi e antiaeree trattenendo le artiglierie mobili e l’armamento individuale. Era una delle comunicazioni ingannevoli messe in atto dai tedeschi che si erano già impadroniti del comando in terraferma. Il comunicato prometteva il rimpatrio delle truppe. Ma l’unico a partire veramente fu il governatore dell’isola, Pietro Parini, che lasciò in fretta Corfù con un carico collocato su tre panfili. Per contro ci fu il conte Ludovico Barattieri, commissario civile, che, proclamata la sua posizione antifascista, decise di condividere la sorte dei militari rimanendo sull’isola.

Il maggiore Calzi, con il colonnello Lusignani e gli altri ufficiali superiori dell’isola, si rese subito conto che lo scontro con le truppe tedesche sarebbe divenuto inevitabile. La richiesta di aiuti inviati il giorno 10, tramite il maggiore Capra al Comando Supremo italiano, ribadì la volontà di combattere. L’11, dall’Italia, pervenne la comunicazione di considerare nemiche le truppe tedesche. Lo stesso giorno vennero liberati i detenuti politici e distribuite le armi ai patrioti greci che contribuirono attivamente e valorosamente, con più di seicento combattenti effettivi, alla battaglia di Corfù. Dalle riunioni alle quali il maggiore Stefano Calzi partecipò emerse la volontà di essere fedeli al legittimo governo Badoglio e di mantenere in mano italiana l’isola.

E questo fu comunicato, praticamente, dal Lusignani e dal Barattieri al maggiore tedesco Von Hirschfeld il 12 settembre. Lo stesso giorno il contingente italiano venne rinforzato dall’arrivo del colonnello Elio Bettini, comandante del 49° Reggimento Fanteria Parma con parte delle sue truppe. Il giorno successivo ebbe inizio la battaglia, preannunciata dal lancio di volantini  invitanti alla resa. Poco dopo l’aviazione tedesca attaccò il porto e l’aeroporto seminando morti e feriti. Dopo qualche ora ci fu  il danneggiamento e l’affondamento, da parte dell’artiglieria italiana, di motovelieri trasportanti  truppe tedesche che volevano impadronirsi dell’isola.

Il giorno 14 le truppe italiane catturarono la guarnigione tedesca di Corfù.

Gli aerei tedeschi non diedero tregua bombardando i capisaldi dell’isola verso la quale, dall’Italia, erano stati inviati inutili mezzi navali richiamati subito dopo. Nei giorni seguenti la battaglia continuò contro le temibili forze aeree nemiche che agivano con larghezza di mezzi con bombardamenti, spezzonamenti e mitragliamenti su truppe e difese contraeree e antinave mettendo queste ultime, in breve, fuori uso.  Gli attacchi dal cielo aumentarono dopo il 22 settembre, giorno della resa di Cefalonia.

Il 24 settembre sbarcarono sull’isola, a più riprese, truppe tedesche.

Martedì 25, dopo giorni di tenace resistenza alle preponderanti forze nemiche appoggiate dalla temibile aviazione, il comando militare dell’isola fece alzare la bandiera bianca. Vennero passati per le armi il Lusignani, il Bettini ed altri. (La figlia di quest’ultimo, Graziella, è l’attuale presidente nazionale dell’ Associazione Nazionale Familiari e Reduci della Divisione Acqui).

Il maggiore Calzi, che aveva combattuto come un leone e che aveva incitato i suoi fino all’ultimo, venne catturato dai tedeschi. Sfuggito alla fucilazione per miracolo, fu inviato, insieme a molti dei suoi sottoposti, nel campo di concentramento polacco di Deblin-Iren dove subì ogni sorta di angherie. Tuttavia si adoperò perché i suoi soldati non patissero sofferenze peggiori.

Il Calzi venne poi trasferito in altri campi di concentramento finché giunse in quello di Würzen, in Germania, dove manifestò apertamente, a differenza di altri, la volontà di non volere servire i tedeschi. Questi tentarono di fargli cambiare idea anche con il ricatto del cibo. In breve, logorato dalla fame, dagli stenti e dal duro lavoro, venne trasformato in una larva umana. Il fisico era piegato ma non la mente sostenuta da una profonda fede. Scrisse da quel campo di concentramento lettere alla moglie e alla figlia che sperarono inutilmente di poterlo riabbracciare presto. Tra quelle righe egli diceva di non avere ceduto il suo braccio ai tedeschi; irriducibile fino all’ultimo nell’onore di soldato italiano e per l’onore della patria. Martire per la stessa.

Consumato dalla malattia venne portato troppo tardi nell’ospedale di Würzen dove morì il 15 aprile 1945, a pochi giorni dalla Liberazione, sopportando dolori atroci e infondendo coraggio come sul campo di battaglia di Corfù, a coloro che gli stavano intorno.

Pagò con la vita la sua scelta di fedeltà alla patria, una scelta consapevole e coerente, dimostrando di avere combattuto da eroe e di essere morto come tale.

Angelo Locatelli

 

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