Politica

La Corte Costituzionale,
voce viva della Costituzione

Le origini del giudizio di costituzionalità, che è affidato alla Corte Costituzionale, si possono rinvenire negli Stati Uniti.

Fu la storica sentenza della Corte Suprema nella causa Marbury vs. Madison del 1803 che affermò il principio della superiorità della Costituzione rispetto alla legge, chiarendo altresì che il ruolo di tutore della Costituzione è affidato ai giudici.

In questa sentenza si legge: “Il popolo ha il diritto originario di stabilire, per il suo futuro governo, quelle regole che ritiene adeguate al conseguimento della felicità [… ma …] i poteri delle camere legislative sono definiti e limitati; la Costituzione è stata posta per iscritto per evitare che questi poteri siano mal compresi o dimenticati. […] O la Costituzione è una legge superiore, non modificabile con mezzi ordinari, oppure è posta sullo stesso livello degli atti legislativi ordinari e, come tale, sempre modificabile dal potere legislativo. Se la prima parte di questa proposizione alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo, da parte del popolo, di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile”.

Nel continente europeo la tradizione era, invece, quella del costituzionalismo francese che aveva sostituito l’assolutismo monarchico con una sorta di assolutismo parlamentare, che respingeva qualsiasi forma di controllo esterno, in particolare da parte dei giudici.

In questa tradizione si inserisce lo Statuto albertino che costituì la carta fondamentale, prima del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, sino al D.Lgs.Lgt. 25 giugno 1944 n. 151, sull’ordinamento provvisorio dello Stato.

Era una costituzione flessibile, non rigida, che poteva essere modificata con legge ordinaria. Tanto è vero che la forma di governo si trasformò quasi subito da costituzionale pura in parlamentare e, poi, con il fascismo, in autoritaria, senza che lo Statuto subisse modifiche.

Ignorava del tutto, lo Statuto albertino, il controllo di costituzionalità. Ma la rigidità della Costituzione, come abbiamo visto, era allora estranea alla cultura europea.

Il mito dell’assolutismo parlamentare entrò in crisi a cavallo fra il XIX ed il XX secolo.

Nella sua prolusione del 1909 all’Università di Pisa, Santi Romano parlò di crisi dello Stato moderno. Il grande giurista palermitano identificava la crisi nel montare e nel crescere di formazioni sociali che, frastagliando la compattezza dello Stato (quella compattezza voluta dal progetto giacobino, ma assai congeniale allo Stato di diritto di marca liberale), lo stava erodendo nel profondo.

Nella prima metà del secolo XX due grandi giuristi, Hans Kelsen e Carl Schmitt, si posero il problema di quale fosse il soggetto istituzionale più adatto a garantire la Costituzione.

Per Kelsen la Costituzione è prima di tutto la principale fonte sulla produzione del diritto ed egli suggeriva il ricorso ad un organo giurisdizionale, una Corte Costituzionale, quale istanza unitaria, in posizione di indipendenza rispetto ai soggetti da controllare.

Per Schmitt, invece, la Costituzione era la decisione politica fondamentale; egli riteneva che la funzione di garanzia dovesse essere affidata a quell’organo che rappresentava l’unità politica del popolo, e cioè il Capo dello Stato cui attribuire poteri di eccezione per i momenti di crisi.

Ma, nel XX secolo, iniziò a farsi strada anche la consapevolezza che il pericolo per la libertà potesse provenire anche dalle assemblee rappresentative e che occorresse un organo che potesse porre freni alla onnipotenza del legislatore, che poteva tradursi in una tirannia.

La posizione di Kelsen risultò, quindi, vincente e la prima Corte Costituzionale, su suo impulso, fu prevista dalla Costituzione austriaca del 1920.

In questo solco, si inserisce la Costituzione italiana del 1948. A differenza che negli Stati Uniti dove vi è un sistema diffuso di controllo di costituzionalità, affidato a tutti gli organi giudiziari, i quali disapplicano le norme in contrasto con la Costituzione, fu scelto un sistema accentrato: il controllo di legittimità è affidato ad un organo costituzionale istituito ad hoc. Questo Tribunale, a differenza del sistema diffuso (per il quale vi è il ricorso alla Corte Suprema), decide in via definitiva con efficacia erga omnes, eliminando dall’ordinamento le norme in contrasto con la Costituzione, e non solo disapplicandole.

La Corte Costituzionale non entrò in funzione subito. La nomina dei 15 giudici fu faticosa e la Corte si insediò il 15 dicembre 1955 e tenne la sua prima udienza il 23 aprile 1956.

Il suo contributo affinché l’ordinamento si conformasse ai principi costituzionali e affinché si affermasse una lettura costituzionalmente orientata delle norme è stata determinante, tanto è vero che si parla della Corte come  viva vox Constitutionis. Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, si tendeva a distinguere, fra le norme costituzionali, quelle “immediatamente precettive” da quelle “meramente programmatiche” (secondo una distinzione introdotta dalla giurisprudenza della Cassazione); veniva prospettata anche la teoria secondo cui il sindacato di costituzionalità non potesse estendersi alle leggi antecedenti all’entrata in vigore della Costituzione (come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato nella controversia inerente una norma del T.U. di pubblica sicurezza del 1931 che costituì l’oggetto della sentenza n. 1 della Corte).

Di queste teorie fece subito giustizia la stessa Consulta con la sua prima sentenza (14 giugno 1956 n. 1).

Relativamente all’affermarsi progressivo del ruolo della Corte, è di grande interesse la lettura di due splendidi saggi, “Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana” di Livio Paladin e “Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana” di Sergio Bartole.

Il peso effettivo della Corte, nell’ordinamento costituzionale italiano, ha rappresentato e rappresenta tuttora il tema di giudizi assai diversi, pur avendo la Corte ospitato, nei suoi quasi sessant’anni di vita, alcune delle menti giuridiche più brillanti del paese.

Basterà ricordare, fra i giudici ormai scomparsi, il primo presidente, Enrico De Nicola; Gaspare Ambrosiani, teorico dell’autonomia regionale; il cremonese Giuseppe Cappi (di cui il prossimo anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte); i costituzionalisti Costantino Mortati e Livio Paladin; l’amministrativista Aldo M. Sandulli; il romanista Giuseppe Branca; il processualista Virgilio Andrioli.

Ha scritto Paolo Grossi, attuale giudice della Consulta, che la Corte, nell’ordinamento giuridico italiano, ha rappresentato un organo sommamente garantistico per il cittadino, che trova in essa il presidio delle sue libertà fondamentali.

In conclusione, occorre ribadire che tutte le funzioni della Corte Costituzionale sono riconducibili “ad un principio fondamentale unitario: garantire e rendere praticamente operante il principio di legalità che il nuovo ordinamento dello Stato ha esteso a livello costituzionale, sottoponendo al rispetto delle norme costituzionali anche gli atti degli organi politici statali, nonché i rapporti intercorrenti tra questi ultimi e quelli tra Stato e regioni” (Corte cost., 17 febbraio 1969 n. 15). Questa attività appartiene alla fisiologia di un ordinamento a costituzione rigida, che contempla, anche se non impone, un organo di giustizia costituzionale. Tuttavia, la Corte, nel tempo ha dovuto anche supplire alle inadempienze e ai ritardi del Parlamento e del Governo,  disarticolando, a colpi di sentenze, non solo gran parte dell’apparato normativo preesistente all’entrata in vigore della Costituzione, ma anche leggi successive che ledevano valori fondamentali dalla medesima espressi, implicitamente dichiarando l’illegittimità anche dell’indirizzo politico del quale erano espressione. Non può negarsi che la Costituzione della Repubblica italiana – naturalmente si parla della Costituzione vigente – risulta parzialmente corrispondente a quella che la Corte ha statuito che sia, e molti suoi articoli vanno ormai letti, interpretati e attuati alla luce delle sentenze costituzionali, facendo della Corte la viva vox Constitutionis. In conseguenza di ciò, ha occupato uno spazio di intervento, che a mano a mano si è esteso e serve a caratterizzare la stessa Corte come organo dotato di una “forza politica”, pur senza appartenere alla politica: “l’incidenza delle sue inappellabili decisioni, la rilevanza che assumono le motivazioni delle sue sentenze (e gli obiter dicta in esse spesso contenuti), la diffusa (ma, in un certo senso, inevitabile) tendenza a sostituirsi al legislatore inadempiente hanno fatto assumere alla Corte un ruolo che, almeno secondo l’originario disegno costituzionale, essa non era chiamata a svolgere; per cui alla Corte sono oggi affidati poteri sostanziali di indirizzo politico, pur nel quadro complessivo delle sue funzioni,  dirette ad assicurare il pieno rispetto della Costituzione”, come ha affermato il costituzionalista Temistocle Martines. Eppure, nessun rischio corre la tenuta delle nostre istituzioni a causa di una giustizia costituzionale protesa alla massima tensione di garanzia: essa, infatti, “protegge la Repubblica e per questo limita la democrazia, perché vale a preservarne il carattere di specificazione della Repubblica. La sua funzione è precisamente di evitare che qualcuno, una parte soltanto, s’impadronisca della “cosa di tutti”, estromettendo l’altra parte dalla proprietà comune. In breve: la  giustizia costituzionale è una “funzione repubblicana”. In questa definizione di poche parole c’è tutta la sua importanza e la sua dignità e non c’è nessuna ragione di arrampicarsi sugli specchi per cercare a ogni costo di assegnarle un’innaturale natura democratica, di cui essa non ha alcun bisogno, che ha anzi da temere”, come ha scritto l’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky in “Principi e voti. La Corte Costituzionale e la politica”, un aureo libretto la cui lettura mi sento di consigliare anche ai non tecnici del diritto.

Antonino Rizzo

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